Tossicodipendenti e carcere: un racconto in prima persona

“La tossicodipendenza e la criminalità di questo tipo sono come un iceberg. Tu vedi la punta, ma sotto c’è un mare di motivazioni che ti hanno portato a fare ciò che hai fatto. Lavorare su quel mare non è facile, vuol dire, per un carcerato, mettere in discussione la propria vita, e non tutti sono disposti a farlo”.

– Ciao Chiara. Noi due ci conosciamo da un po’ di tempo, ma ti puoi presentare per i nostri lettori?

Sono una laureanda al terzo anno di educazione professionale, un corso di laurea un po’ diverso da quello di scienze dell’educazione perché si occupa principalmente dell’area sociosanitaria, non solo di quella educativa/pedagogica.
Faccio tirocinio presso un SerT, principalmente in un carcere (casa circondariale), e mi occupo di fare attività e colloqui con detenuti che hanno una certificazione di dipendenza da sostanze o da alcol.

– Parliamo del tuo lavoro presso il carcere, in cosa consiste?

Seguo delle attività che hanno l’obiettivo di modificare l’approccio dei detenuti alla sostanza: il primo passo è capire quali sono state le motivazioni che li hanno spinti a fare uso di sostanze per poi svolgere un percorso nell’ambito carcerario di cura e trattamento educativo. Successivamente, quando possibile, si valuta se concedere misure alternative di carcere di tipo terapeutico (comunità oppure affidamento territoriale). In questi casi il detenuto può tornare alla propria vita, però rimanendo agganciato al SerT, facendo settimanalmente controlli delle urine, colloqui con psicologo, educatore o assistente sociale in base ai bisogni del singolo.

– Quindi l’obiettivo è quello di reinserire queste persone nella società?

Esatto, facendo però anche un lavoro di cura della tossicodipendenza, non soltanto di riabilitazione penale.

– Hai detto che andate ad analizzare quali sono i motivi che hanno spinto queste persone a intraprendere una strada “sbagliata”. Nella tua esperienza, quali sono i fattori più frequenti?

Escludendo i casi di persone con evidenti patologie criminali, le motivazioni in genere sono due: o il bisogno, padri di famiglia senza lavoro o persone che hanno perso tutto, uomini e donne che, nella disperazione, si danno all’alcol o alle droghe come consolazione, o per superare psicologicamente i reati che commettono (generalmente spaccio, furti/rapine). Oppure sono persone con una situazione familiare patologica: ragazzi con genitori che fanno uso di sostanze o che sono stati in carcere, che spesso vivono in quartieri difficili, dove la criminalità è radicata.
Sono persone fragili che non hanno avuto la forza o le risorse per tirarsi fuori dalla loro situazione, o quantomeno per chiedere aiuto.

– Che età hanno le persone che segui?

Prevalentemente dai 30 ai 60 anni. Ci sono però diversi ragazzi più giovani, molti nella fascia tra i 25 e i 29, e qualche nostro coetaneo (20 anni circa). Una buona larte di loro hanno alle loro spalle il carcere minorile o la comunità Kayros. Sono entrati nel mondo della criminalità ancora minorenni: molti hanno genitori tossicodipendenti, altri genitori molto assenti e quindi hanno iniziato a frequentare ragazzi più grandi poco affidabili. Provano allora le prime canne, poi passano ad altro, che costa di più… e allora cosa fanno? Se la guadagnano, spesso iniziando a spacciare.

– Ti pesa come lavoro?

No. Io sono principalmente nella sezione maschile, molto raramente in quella femminile. Il mondo femminile è un po’ a parte; con gli uomini però si riesce a fare un lavoro abbastanza critico sulla loro storia passata, cosa li ha portati a fare certe scelte, a essere in carcere e quindi si riesce a fare un lavoro costruttivo. Con le donne è diverso. La componente emotiva è molto più forte, hanno un forte senso di colpa nei confronti della famiglia, dei genitori, dei figli se li hanno; molto spesso sono in carcere per essere state complici dei reati fatti dai fidanzati. Comunque, no, a me non pesa. Se ti piace lavorare per il recupero delle persone, il carcere è l’ambito più adatto.

– Pensi che sia un lavoro necessario, che qualcuno deve svolgere, quello che stai facendo presso il carcere?

Assolutamente sì. Non si può accettare passivamente che una persona muoia a causa della tossicodipendenza. È nell’interesse di tutti evitare queste situazioni. Non sono realtà lontane da quella della gente comune, dalla vita del cittadino medio. È vero, molti sono dei poveracci, ma potrebbero essere i tuoi vicini di casa. Sono persone comuni, che si ritrovano in situazioni complicate.
È necessario a livello di società continuare a svolgere un lavoro rieducativo per dare la speranza a queste persone. Non può passare il messaggio che una volta che sei tossicodipendente, morirai tossicodipendente, che se sei andato in carcere una volta la tua vita è finita.

– Si riesce effettivamente a reinserire queste persone nella società?

Il tasso di successo (recupero completo del carcerato) è molto basso. La tossicodipendenza, la criminalità di questo tipo, è come un iceberg. Tu vedi la punta, ma sotto c’è un mare di motivazioni che ti hanno portato a fare ciò che hai fatto. Lavorare su quel mare non è facile, vuol dire, per un carcerato, mettere in discussione la propria vita, e non tutti sono disposti a farlo. Dopo tanti sforzi, ci provi, ci ricaschi, una persona diventa demotivata e non ci prova neanche più a migliorare la propria condizione.
Per noi, che tentiamo di reinserire queste persone nella società, è difficile rimanere soddisfatti dalla riuscita dell’intero percorso, perché pochi ce la fanno. Bisogna accontentarsi del proprio senso di aver fatto qualcosa. Quando ti cercano per raccontarti qualcosa, decidono di aprirsi e di raccontarti una parte della loro vita, queste sono le soddisfazioni nell’ambito del sociale in cui lavoro.

– Quindi dici che la motivazione del “farlo per loro” funziona poco? Funziona di più il “lo faccio perché mi gratifica”?

No, allora, se tu pensi di fare questo lavoro solo per soddisfazione personale, cambia lavoro perché non arriverai mai a dire “ce l’ho fatta”. Magari riesci a riabilitare una persona, ma si tratta di casi isolati. Nell’ambito del sociale la morale del fare del bene per l’altro, che è diffusa e funziona nel volontariato, non regge per chi lavora in questo campo per tutta la vita. Devi avere qualcosa che ti ritorna, un minimo di gratificazione personale: magari una persona ricomincia a farsi o è tornata in carcere, ma io nel momento del bisogno, quando abbiamo lavorato assieme, ho fatto tutto quello che potevo fare per aiutarlo a stare meglio. Poi bisogna tenere a mente che nella maggioranza dei casi lavoriamo con adulti liberi di scegliere in modo più o meno consapevole quello che vogliono fare, che hanno la libertà di pensare (e dirti) “ma tu che ca**o vuoi da me, io faccio quello che voglio della mia vita”.

– Le persone che non lavorano nel tuo campo, me compreso, sono abituate a pensare infantilmente che ad azione corrisponde reazione: faccio la cosa giusta, ottengo la ricompensa. Nel tuo caso la meccanica sembra più essere “ci provo, ci provo e ci riprovo, ma la ricompensa non arriva”.

Noi siamo abituati a pensare “ho un obiettivo e lo raggiungo”. Non pensiamo a tutti quei traguardi minori che dobbiamo raggiungere per arrivare a quel traguardo finale. In questo lavoro il macro-obiettivo sarebbe quello di portare una persona a trovare un lavoro, reinserirla nella società, far si che non faccia più uso di sostanze. Nel mentre però c’è il limitare il consumo di droga/alcol o sospenderlo per un periodo, il rendere queste persone il più autonome possibile. Piccoli passi per arrivare a qualcosa di più grande; se ci riescono bene, ma se già riescono a vivere una vita dignitosa e accettabile è comunque una soddisfazione.
In molti casi il mio lavoro è quello di far sfogare queste persone, parlandoci. Passare mezz’ora della giornata serenamente. A volte non mi sembra neanche di fare colloqui “educativi”, ma delle chiacchierate per dare momentaneo benessere ai carcerati.

– Immagino che il tuo lavoro sia a forte impatto psicologico. Da persone come me siete visti un po’ come degli angeli; quindi, perché si sceglie di fare questa professione?

Le persone che decidono di fare gli educatori lo fanno per vocazione, non certo per lo stipendio. A livello sociale veniamo visti o come degli angeli, o come dei pazzi. Molti di quelli che lavorano in questo ambiente lo fanno perché nella loro vita o sono stati o hanno avuto parenti tossicodipendenti. Quindi c’è quel senso di riscatto, di aiutare come avresti voluto aiutare il tuo familiare.

– Hai detto che molti ex-detenuti ricadono nel mondo della criminalità e ricominciano a fare uso di sostanze. Per quale motivo questo accade così frequentemente?

Tanti tornano a vivere dove abitavano prima quindi, stessi luoghi, stesse compagnie, stesse persone. Se non si è fatto un lavoro abbastanza approfondito dopo qualche mese di resistenza ci ricascano.
Al di là dell’ambiente, c’è una motivazione fisiologica: queste persone non riusciranno più a provare quel senso di benessere, di calma che gli dava la sostanza. Con la droga hai raggiunto il 100, il massimo, ma con altre attività, belle che siano, non arriverai mai a quel livello. Molti utenti mi dicono “non troverò mai niente che mi farà stare bene come la sostanza”. Generalmente, quando tutto va bene, dopo essere usciti dal carcere, evitano di rifare uso di sostanze. Ma appena qualcosa va male, al primo evento negativo, si rifugiano nella droga o nell’alcol, per sentirsi meglio.

– Dei tanti racconti che hai sentito, c’è uno, o alcuni, che ti sono rimasti particolarmente impressi?

Le storie che più mi impressionano sono quelle dei miei coetanei. È strano parlare con un ragazzo che ha la mia età, e che ha vissuto certe cose, mentre io studio tranquillamente all’università. C’è stato un ragazzo della mia stessa città, che ha un anno in meno di me; trovarsi nella situazione io-terapeuta, tu-utente in carcere mi ha messo in difficoltà. Queste sono le storie che mi riporto a casa; le storie degli altri riesco a chiuderle, non mi impediscono di vivere serenamente la mia vita privata. Le storie dei miei coetanei mi fanno più male.

– Di queste realtà si parla sempre troppo poco. Si tende a ignorare queste persone, far finta che non esistano. Secondo te, cosa si dovrebbe fare a livello di società, di Stato per loro?

Bella domanda. Nella migliore della ipotesi una persona sconta la sua pena, esce dal carcere pulito ma dopo, anche se questa persona ha pagato per il suo sbaglio, la pena continua, non finisce con il carcere. Banalmente, ti presenti a un colloquio e risulta che per anni sei sparito, non hai fatto nulla. Ti viene allora richiesto il certificato penale e, in un modo o nell’altro, risulti discriminato. È molto difficile andare oltre allo stigma, al marchio che ti rimarrà per sempre di essere stato un detenuto.
È normale che un datore di lavoro si voglia tutelare; si assume una persona perché è in grado di fare un lavoro, non per pena. Garantire periodi di prova per ex-detenuti potrebbe essere un’idea. Molti detenuti hanno un buon livello di istruzione e lavoravano prima del carcere quindi sono individui validi, che con il giusto supporto potrebbero reinserirsi nel mondo del lavoro.
Inoltre, se veramente l’obiettivo del carcere è quello di rieducare una persona allora bisogna puntare su corsi di istruzione e di formazione. Bisogna evitare che i carcerati passino le giornate con le mani in mano; sarebbe invece importante insegnare loro un mestiere.

– Per quanto riguarda il tuo lavoro, pensi sia sufficientemente finanziato?

No, dove lavoro siamo due educatori per più di ottanta detenuti tossicodipendenti. È vero che molte attività vengono organizzate attraverso cooperative ed enti esterni quindi con personale aggiuntivo, ma, banalmente, tenere colloqui con tutti i detenuti con così poco personale diventa problematico.
Speriamo che in futuro si abbia più consapevolezza di queste realtà e che si faccia il più possibile per fornire supporto queste persone.

Grazie Chiara.


Nell’intervista nomi e luoghi sono stati oscurati per non ledere alla privacy dei detenuti e dell’intervistata, che ci ha chiesto di rimanere anonima.

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